Essere o non essere Walter Sabatini

Gianluca Notari – Chi ama un certo tipo di calcio, quello un po’ romantico, romanzesco e romanzato, non può non conoscere Paolo Sollier. Calciatore mediocre per sua stessa ammissione, in una chiacchierata di circa un annetto fa mi ha confessato di aver cenato, alla chiusura del mercato di gennaio del 2018, con il suo grande amico Walter Sabatini. A tal riguardo mi ha detto: «Il suo ruolo è enorme: ha dei poteri incredibili, ma anche tanti oneri. È a capo di un impero, io non ce la farei mai».
A quanto pare, anche il suo amico Walter non ha retto. O forse non ha voluto, ma cambia poco. Fatto sta che Sabatini, dopo neanche un anno da direttore sportivo del gruppo Suning (Inter e Jiangsu), ha mollato. Divergenze con la proprietà, si è detto. Che poi è la stessa cosa che si era detta a Roma con Pallotta e prima ancora a Palermo con Zamparini. Lavorare con l’ex patron rosanero non deve essere facile, ma neanche essere Walter Sabatini dev’essere la cosa più semplice del mondo.

Da quando ho visto il film di Spike Jonze “Being John Malkovich” mi sono sempre chiesto dentro la testa di chi volessi entrare e, per diverse volte, mi sono immaginato nella testa del ds umbro. Nei miei pensieri l’ho sempre immaginato come un cerbero a tre teste, ognuna di esse impegnata ad occuparsi di un lato della personalità sabatiniana, che dentro di me ho riassunto proprio in tre punti: giovani promesse – meglio se sudamericane; letteratura – meglio se politica; sigarette – meglio se Marlboro.

Parlare di una figura iconica come Walter Sabatini non è semplice. Non si sa da dove cominciare, e soprattutto dove il discorso possa finire – semmai esso possa davvero finire. Calciatore dalle buone doti tecniche e qualitative, i cronisti dell’epoca ne esaltavano il dribbling e l’estro. Ma per sua stessa ammissione, il ds Sabatini non avrebbe mai acquistato il calciatore Sabatini. «Non c’aveva voglia», mi confida Sollier. Negli spogliatoi Sabatini leggeva Dostoevskij, e nel tempo libero si occupava di politica. Non proprio i passatempi prediletti dai giocatori di calcio. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, inizia la sua carriera da direttore sportivo nella squadra che lo aveva lanciato tra i professionisti nel lontano 1975, il Perugia. Sei anni lì, poi il ruolo di coordinatore dei vivai alla Lazio, un altro paio di esperienze da ds per poi tornare a Formello, stavolta con il ruolo che tutt’oggi ricopre. Poi Palermo, Roma, Suning e ora Sampdoria.

Quando ho conosciuto Sabatini, la cosa che più ricordo è stata la dicotomia secondo la quale divide i bravi giocatori: «Di talento e talentuosi», disse. In verità, lì per lì non trovai molto senso a questa affermazione. Così, avvicinandomi con timore reverenziale, chiesi lumi a tal proposito. «I giocatori di talento sono tanti, tantissimi: per arrivare a certi livelli devi avere talento, per forza. Ma sono quelli talentuosi riescono a metterlo a frutto: sono quelli che fanno la differenza, quelli che ti fanno vincere».

Pensandoci su, immaginavo la gioia o la profonda delusione che un direttore sportivo può provare nel momento in cui ‘azzecca’ o ‘sbaglia’ un giocatore. E la risposta è stata: enorme. Enorme come lo stress di cui si fa carico, ed ecco spiegate le care Marlboro, gli enfisemi polmonari e il malore avuto ad ottobre scorso. Tutto ciò era probabilmente inevitabile: essendo un uomo passionale e appassionato, Sabatini dà l’impressione di viver male ogni trattativa. «Se ‘sbaglio’ Lamela smetto di fare il direttore sportivo» è solo una delle tante frasi-simbolo del mood sabatiniano: tutto o niente, bianco o nero, sì o no, retaggio dell’aderenza ad un’ideologia politica che non lascia spazio a fraintendimenti. Prendere o lasciare. Chi ingaggia Sabatini lo sa: si fa carico di tutte le sue idee, del suo essere diverso da tutto ciò che lo circonda, del suo essere unico nel suo genere. Un pesce fuor d’acqua, che non perde occasione di dimostrarlo. Le sue dichiarazioni a mezzo stampa sono spesso originali, così come il suo linguaggio del corpo. Sfrontato ed irriverente, ha eretto la plusvalenza ad unico credo in cui avere fede, ma per farlo ha bisogno di libertà d’azione. E probabilmente anche di caos, situazione-limite in cui si mostra pienamente a suo agio. Non è un caso infatti che i picchi della sua carriera siano stati in società meno organizzate rispetto a quelle appartenenti alle élite del calcio: Palermo, Lazio e la prima Roma statunitense, non certo modelli di società vincenti.

Non si parla di traguardi sportivi, ma di trading efficace: Pastore al Palermo, Kolarov e Lichsteiner alla Lazio, Manolas, Alisson e Marquinhos alla Roma. Questi sono solo alcuni dei nomi che Sabatini può mostrare con orgoglio come stelle al merito, ma non va dimenticato che, così come tutto il resto, anche le sue intuizioni di mercato sono un saliscendi continuo: Meghni, Talamoni, Uçan, Doumbia e Ibarbo sono ad esempio investimenti sbagliati, che club di medio calibro come i sopracitati hanno dovuto pagare caro, obbligati di volta in volta a sanguinose cessioni.

Non smetto di pensare mai al fatto che Sabatini possa vedere nel suo lavoro una certa forma di missione sociale: in un’intervista a La Repubblica, dice: «Noi alla fine facciamo del bene. Famiglie che non avrebbero da mangiare trovano un aiuto grazie al calcio. Gervinho, della Costa d’Avorio, a Roma aveva una famiglia mostruosa, manteneva 25 persone, in Africa è così, se uno ha soldi e successo si trascina dietro una comunità. Quando si parla di calcio tutti vedono malaffare, intrighi, sfruttamento, dove invece c’è solo un’opportunità di lavoro. C’è sempre un certo razzismo culturale: se arrivi alla Scala per studiare danza sei un artista promettente, che sfrutta un’occasione, se arrivi dal Ghana in Italia per giocare a pallone sei vittima di chissà quali abusi, mazzette e delinquenti». “Fare del bene”, “opportunità di lavoro”, “razzismo culturale”: è evidente, nell’uomo Walter Sabatini, una consapevolezza civica e sociale, certamente figlia di quell’impegno politico giovanile che stona terribilmente se messa in relazione al mondo del calcio globale e manageriale.

Ma forse è meglio così. Come detto Sabatini è questo, prendere o lasciare. L’impressione, infine, è che una figura come la sua sia indispensabile per il lato umano del calcio. Perché a far mercato pagando le clausole da 200 milioni son buoni tutti. È quando il bilancio deve essere portato in positivo, o quando il club viene da una stagione fallimentare, che si vede la stoffa dell’uomo prima e del direttore sportivo poi. E quella Sabatini ce l’ha di certo. E no: almeno quella, non è in vendita.

Gianluca Notari