Gianluca Notari – Quando si parla di Giappone, i riferimenti a cui ci rifacciamo sono sempre quelli: il sushi, i cartoni animati e i film che parlano di arti marziali, tipo Karate Kid. Quando invece si parla di calcio giapponese, solitamente il discorso si riduce a pochi nomi: alcuni di questi sono legati a squadre leggendarie, come Kagawa per il Borussia di Klopp o Okazaki per l’impresa del Leicester con Ranieri; altri invece sono ricordati come meteore del calcio italiano, vedi Nagatomo e Honda; o altri ancora appartenenti ad un passato ancestrale come Nakata e Nakamura. Altre volte, invece, si torna a parlare di Holly e Benji, con le solite battute sulla lunghezza del campo e sulla negligenza dei medici che permettevano a Julian Ross di giocare. Ma fuori dagli stereotipi e dai cliché, il calcio giapponese è molto più di questo.
Il movimento calcistico in Giappone, al contrario di quanto si pensi comunemente, ha una tradizione secolare. Antecedente alla creazione nel 1992 della prima lega nazionale ufficiale – la J. League Division 1, nota oggi come J1 League -, il calcio in terra nipponica fu portato dagli inglesi nel lontano 1873 da Sir Archibald Lucius Douglas, ammiraglio della Royal Navy di base a Tokyo, dove aveva il compito di istruire una classe di cadetti di circa 30 unità. Si dice che proprio durante una pausa dall’addestramento il marinaio mostrò ai suoi alunni le sue abilità nel palleggio: inizialmente gli studenti non ne furono attratti, ma la magia del calcio fece sì che tutto ciò avvenisse in concomitanza con una grande rivoluzione che stava investendo tutto il Giappone, portando la sua società da una struttura di tipo feudale ad una di tipo occidentale. Questi cambiamenti, naturalmente, riguardarono anche il campo dell’istruzione e dello sport, avviando grandi opere di rinnovamento delle strutture sportive: vennero infatti costruiti in breve tempo nuovi impianti dedicati al baseball, al rugby e anche al calcio, che cominciò così la sua storia in terra nipponica. Nel 1918 iniziarono i primi tornei regionali, mentre il primo campionato nazionale di cui si ha notizia è datato 1921, in concomitanza con la nascita della Japan Football Association. Il calcio rimane però relegato al mondo accademico, decisamente in ombra rispetto al più popolare baseball. La prima vera occasione di rilancio si presenta alle olimpiadi di Tokyo nel 1964: la Nazionale nipponica non fece una grande figura, ma rimarrà per sempre impressa nella storia di questo sport la clamorosa vittoria contro l’Argentina, la stessa della tristemente nota Tragedia di Lima. Nello stesso anno, sotto l’impulso dei Giochi, nasce la Japan Soccer League, primo campionato nazionale giapponese, anche se ancora a livello amatoriale.
Per aspettare la creazione di un campionato ufficiale professionistico si dovranno aspettare quasi 30 anni: come detto, la J League nacque nel 1992, diventando a tutti gli effetti sport nazionale. Ma se il livello della competizione era piuttosto scadente, il fascino dell’Oriente riuscì ad ammaliare campioni da tutto il mondo praticamente da subito: la prima migrazione verso est si attesta già nel 1994, quando atterrò a Tokyo la leggenda Dragan Stojkovic, mentre un anno dopo fu il turno di Dunga. I due, che vestirono rispettivamente le maglie di Nagoya Grampus e Jùbilo Iwata, diedero un certo lustro al campionato, ma per farsi conoscere il Giappone a undici necessitava di un ambasciatore che girasse per il globo ad avvertire il mondo che, ormai, a pallone si giocava anche lì. Detto fatto, il legato prescelto fu Kazuyoshi Miura: per rinsaldare il legame culturale tra Brasile e Giappone, Miura si trasferì a giocare in sudamerica quando ancora doveva esordire nel calcio professionistico. Giocò lì per quattro stagioni, vestendo le maglie tra le altre di Santos, Palmeiras e Coritiba, per poi tornare al Verdy Kawasaki, a casa sua. Poi lo acquistò il Genoa, e Miura divenne il primo nipponico a solcare i campi di Serie A, ma dopo una sola stagione cambiò aria, rimbalzando tra Croazia, Australia e ancora Giappone. La cosa più interessante da dire riguardo a Miura è che ancora oggi gioca: è da poco tornato nel Yokohama FC, e alla veneranda età di 52 anni è il più anziano giocatore professionista ancora in attività.
Ma tutto questo, dando uno sguardo all’odierno Giappone, si direbbe appartenere alla preistoria: dopo la parentesi iniziale degli anni 2000, dove la J League ha vissuto un periodo di assestamento che l’ha tenuta ancora lontana dai canoni occidentali (per capire la provincialità del torneo basti pensare alla canzone scelta nel 2003 come intro dei match di campionato: “Supercafone” di Piotta, per intenderci), i nipponici che giocano in Europa sono oggi circa una cinquantina, ed il fenomeno è in continua espansione. Il livello della competizione è ancora basso rispetto all’Europa, ma la sua reputazione sembra destinata a crescere: come fu per Dunga e Stojkovic, gli ultimi movimenti di mercato dei club giapponesi potrebbero dare l’imput per un nuovo balzo in avanti dell’intero movimento. Quella di quest’anno, infatti, si preannunica essere la J League più bella di sempre. Primo motivo di questo fenomeno sono, così come fu per la Cina qualche anno fa, gli enormi capitali investiti: Iniesta, dopo una carriera che gli ha permesso di entrare nell’olimpo di questo sport, ha deciso di svernare a Kobe, città che fino a quel momento era famosa solamente per la lavorazione della squisita carne di manzo. E chissà quante bistecche potrà mangiare oggi l’ex Barça con lo stipendio da 26 milioni di euro annui che gli assicura il Vissel, squadra in cui si è trasferito un annetto fa. Assieme a lui, capitano del Kobe l’ex enfant prodige Lukas Podolski, ormai da due stagioni in Giappone.
A completare il tridente d’attacco con Podolski e Iniesta c’è un altro spagnolo, anche lui ex Barcellona: David Villa. Ritiratosi dai grandi palcoscenici ormai diversi anni fa, El Guaje ha deciso di girovagare per il mondo giocando a calcio e incassando un sacco di soldi, passando per Stati Uniti, Australia e, per l’appunto, Giappone. Ma la lista dell’ “anvedi chi ce sta” non finisce qui. In ordine sparso: Fernando Torres, punta di diamante del Sagan Tosu, l’ex Manchester City Jò, acquistato un anno fa dal Nagoya Grampus assieme a Mitchell Langerak, portiere ex Dortmund e stella del calcio australiano. Ci sono poi altri calciatori più o meno noti, come il mai esploso Leandro Damiao e una vecchia conoscenza del calcio italiano come Victor Ibarbo, alcuni autoctoni come la bandiera del Gamba Osaka Yasuhito Endo e all’ex Schalke 04 Atsuto Uchida oltre alle certezze Hugo Vieira del Marinos e Patric del Sanfrecce, autore quest’ultimo di 20 reti nell’ultimo campionato.
Riprendendo il discorso relativo al campionato, la competizione è composta da 18 squadre che si affrontano in due gironi, andata e ritorno. La prima e la seconda sono ammesse automaticamente alla AFC Champions League, la Champions d’Asia, la terza invece deve affrontare i preliminari. Le ultime due retrocedono direttamente in J2 League, mentre la terzultima accede ai playout. Detentore del titolo è il Kawasaki Frontale, che ha vinto le ultime due edizioni. L’asticella, però, quest’anno si è alzata di molto, e dopo le prime tre giornate di campionato non c’è stato un responso chiaro sulle possibili favorite: il Vissel di Iniesta, Podolski e Villa ha perso la prima e vinto le ultime due, mentre il Tosun di Fernando Torres è ultimo a 0 punti. Primo in classifica a punteggio pieno è il Nagoya, quindicesimo lo scorso anno, trascinato dai gol di Jò: il brasiliano è già andato a segno per due volte dopo le 24 reti della scorsa stagione, quando vinse il titolo di capocannoniere. La sorpresa, per il momento, è il brasiliano Anderson Lopes, autore di quattro reti nella goleada del Sapporo contro lo Shimizu S-Pulse.
Infine, uno sguardo alla fruzione: il numero di persone che assiste alle partite di J League è in crescendo, tanto che la piattaforma DAZN ha cominciato dallo scorso agosto a trasmettere il calcio giapponese per la prima volta in Italia, sintomo di un mercato in continua espansione anche tra i buongustai del pallone. Ma la più grande vittoria che il movimento nipponico ha raggiunto negli ultimi anni è forse quello delle presenze allo stadio: i numeri sono in continuo aumento, con medie di paganti che in molti casi somigliano a quelle italiane. Certo, come già detto lo spettacolo a cui i tifosi assistono non è ancora paragonabile agli standard europei, ma le cose stanno migliorando e l’arte del saper aspettare non è cosa nuova da quelle parti. Proprio come diceva il maestro Myagi in Karate Kid: “Dai la cera, togli la cera, dai la cera, togli la cera...”.
Gianluca Notari